Racconto di Adriano Galasso
L’uovo di Natale
La storia che sto per raccontarvi, a prima vista, potrà sembrarvi
quantomeno frutto di una fantasia un po’ surreale, ma vi assicuro che è
la pura verità, così come mi è stata raccontata da un vecchio corvo del
lodigiano.
Stava costui pigramente appollaiato su un vecchio tronco semisommerso,
sul greto dell’Adda, a godersi gli ultimi raggi di sole di metà autunno.
Quando mi vide, mentre perlustravo il fiume a pesca di lucci, e fui a
tiro di orecchio, mi disse con l’aria di chi la sa lunga o forse cercava
solo un pretesto per scambiare quattro chiacchiere:
— Preso niente?
— No — dissi io, e per fugare ogni dubbio, come ogni pescatore ben sa,
sulle mie capacità pescatorie, soggiunsi:
— Oggi non mangia.
E lui:
— Prima è passato di qua uno che ne aveva presi cinque e anche piuttosto
belli.
— A volte è anche questione di fortuna — ribattei un po’ invidioso di
quel successo altrui.
— È vero, il merito degli altri ai nostri occhi è sempre dovuto alla
fortuna e non all’abilità — gracchiò.
Era evidente che mi stava provocando. Si stiracchiò una zampa e vi
allungò sopra l’ala, poi le ritrasse entrambi e gonfiando le penne si
dette una vigorosa scrollata. Visto che io non gli risposi capì che il
colpo mi aveva centrato in pieno. Fece quattro passi, spostandosi di
lato, sul vecchio tronco e aggiunse in tono confidenziale:
— Hai ragione anche tu; a volte la fortuna ci volta le spalle ma a volte
la colpa non è sempre sua ma della nostra incapacità e anche stupidità.
Mi ricorderò sempre al riguardo di una storia che mio nonno Tobia mi
raccontò una sera d’inverno, mentre fuori nevicava. Se vuoi te la
racconto ...
Non potei dirgli di no, anche perché in fondo i corvi mi sono simpatici.
Tirò un lungo respiro per prendere aria e mentre io mi sedevo su un
grosso pietrone levigato, incominciò la storia. Questa.
“Viveva, qui nella palude, una giovine corvetta, bellissima, frutto di
una relazione che sua mamma ebbe con un germano reale, che, quando
nacque, si guardò bene (noblesse oblige) dal riconoscere.
Non reggendo alla vergogna, appena la piccola venne alla luce, la portò
in gran segreto alla conventicola delle cornacchie marzoline che le
imposero il nome di Isotta.
La sventurata giovinetta crebbe presso di loro con sani princìpi morali
fino a quando fu in età da marito. La sua bellezza superava ogni
immaginazione. Aveva sulle ali e sul collo delle magnifiche penne
iridescenti che viravano dal turchese al verde smeraldo al giallo acceso
che mandavano bagliori di luce purissima. L’eredità paterna era fin
troppo evidente. Ben presto tutti i giovani corvi della palude persero
la testa per Isotta e le fecero una corte spietata come solo i corvi
innamorati sanno fare. Ma lei non cedette alle lusinghe di alcuno e il
suo più grande diletto era quello di illudere lo spasimante di turno.
Finché un bel giorno giunse nello stormo un corvo di colore. Nerissimo,
ma così nero che la bella Isotta ne fu presto invaghita. Si chiamava
Phelipe Boroborombomboro-borò detto Pippo, che a sua volta, quando la
vide, ne fu letteralmente fulminato.
Fra di loro nacque subito una tenera relazione che di lì a poco indusse
la giovane corvetta a convincere Pippo che dovevano in fretta e furia
costruire un nido. Ma eravamo a fine Novembre e si sa che nessun corvo
si sognerebbe mai di mettersi a covare al freddo e per di più su un
albero ormai privo di foglie, per ripararsi dalle intemperie. Purtroppo
la frittata era fatta e non c’era tempo di aspettare l’arrivo della
bella stagione. Scelsero l’albero adatto e incominciarono, ramoscello
dopo ramoscello, a costruire il nido.
Tutti i corvi che passavano non potevano fare a meno di dissuaderli e li
sbeffeggiavano.
— Secondo me — disse uno, saggio — la colpa è dell’effetto-serra e dei
cambiamenti climatici se i corvi si innamorano fuori stagione. Un altro
tagliò corto e disse molto sbrigativamente che i corvi extracomunitari
sono tutti delinquenti. Corvi e buoi dei paesi tuoi.... Tutti
concordarono che i due avrebbero presto fatto una brutta fine.
Giunse dicembre. I ramoscelli, carichi di brina, trasportati col becco
gelavano la lingua e la gola dei due. Di lì a poco il nido fu
completato, giusto in tempo per Isotta che depose il suo uovo in un nido
gelido e inospitale. Poi, amorevolmente, si mise a covarlo. Passò di lì
un falco pellegrino in cerca di cibo e quando la vide scosse la testa
dal disappunto. Una vecchia poiana si fermò su un ramo un po’ più in
alto e gliene disse di tutti i colori.
— Voglio vedere quando nevicherà che fine farai: incosciente di una corva.
Veramente non disse proprio così ma l’apostrofò con frasi irripetibili.
La povera Isotta umiliata scoppiò a piangere a calde lacrime. Capì di
avere sbagliato ma capì anche che la cattiveria del mondo non conosce
confini. Che altro avrebbe potuto fare al punto in cui era se non
continuare la cova? Da parte sua Pippo stava tutto il giorno in giro in
cerca di un po’ di cibo che divideva con la sua compagna. Ma ormai non
c’erano più insetti, solo qualche larva strappata a forza dalla
corteccia di qualche albero caduto.
La sera della vigilia di Natale quello che tanto avevano temuto accadde.
Era da poco calata la notte, quando, prima lentamente, poi sempre più
fitto, cominciò a nevicare. Ne venne giù tanta ma tanta che i due poveri
corvi, stretti stretti su quel misero nido, ne furono sommersi.
Purtroppo il peso della neve divenne sempre più grande e insopportabile
per quel ramo che ad un tratto si ruppe di schianto precipitando al
suolo e trascinando con sè i due corvi che imprigionati dal gelo non
poterono prendere il volo per sfuggire ad un destino crudele.
Il caso volle che una coppia di germani che dormivano poco distante,
sentendo quel fracasso, volle andare a curiosare. Una scena terribile
apparve ai loro occhi: i due corvi giacevano immobili l’uno accanto
all’altra, schiacciati dai rami. Videro, per caso, anche il loro uovo
affondato nella neve soffice. Lo raccolsero con molta cura e decisero di
adottarlo, sapendo benissimo che il nascituro non sarebbe stato uno di
loro ma un corvo nero e dal becco aguzzo.
Lo portarono nel loro nido e la germana continuò la cova di quell’uovo
ormai quasi gelato.
Una mandria di cinghiali, che pascolava nelle vicinanze dell’accaduto,
si accorse dei due corvi imprigionati sotto il grosso ramo. Tutti
assieme, spingendo colle loro poderose zanne, ribaltarono il ramo e
estrassero i due corvi che non davano più segni di vita. Li scuoterono,
ma niente, nessun alito proveniva da loro.
La tormenta non cessava, il freddo era ormai insopportabile e i
cinghiali decisero che era inutile stare ancora lì al freddo e decisero
di abbandonare i corvi al loro destino.
— Che cosa volete che ce ne freghi di due stupidi corvi, due bocche in
meno da sfamare! — disse un vecchio cinghialone e per rincarare la dose
del suo disprezzo fece la pipì addosso ai due sventurati. Fu la loro
salvezza! Quell’acqua calda sciolse il ghiaccio che avevano addosso e
quel tepore provvidenziale li fece rinvenire. Pesti e malconci si
tirarono su in piedi reggendosi a fatica. Raggiunsero un anfratto
riparato e attesero la luce del giorno non osando interrogarsi sulla
sorte del loro uovo.
Intanto nel nido dei germani spuntò il giorno di Natale e con loro
grande sorpresa l’uovo si schiuse e ne uscì fuori un pulcino di corvo
inequivocabilmente nero ma con le penne bellissime e dai riflessi
iridescenti proprio come quelle dei germani reali. Per loro fu il segno
più bello che il gesto di solidarietà che avevano compiuto era di grande
nobiltà (intendiamoci: d’animo non di casta, trattandosi di germani reali).
Isotta e Pippo alle prime luci del giorno andarono sotto il loro albero
per cercare di rintracciare l’uovo nel caso non si fosse rotto nella
caduta, ma tutte le loro speranze andarono deluse.
Avviliti e stanchi vagarono per il bosco quando incontrarono un gruppo
di germani che discutevano di ciò che era accaduto nella notte. Questi
li riconobbero subito e li accompagnarono a conoscere il loro figlio
appena nato. La loro gioia fu incontenibile. Al piccolo venne dato il
nome di Germano in omaggio dei loro salvatori.”
Il nonno Tobia concluse così il suo racconto: Vedi, caro nipote, che la
fortuna e la sfortuna sono due facce della stessa medaglia: esse sono
sempre figlie dei nostri meriti e i nostri meriti sono il compenso alle
nostre azioni. Nel bene e nel male.
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8 commenti:
racconto incantato... è vero, "fortuna e la sfortuna sono due facce della stessa medaglia: esse sono sempre figlie dei nostri meriti e i nostri meriti sono il compenso alle nostre azioni. Nel bene e nel male."
E' un insegnamento sconosciuto ai più, nel mondo d'oggi e sarebbe un bene per la società che invece lo si tenesse a mente!
delizioso.
chissa' come sarebbe il mondo, se gli uomini sapessero comportarsi cosi'.
ho "visto" tutto, mentre leggevo il racconto. i corvi schiantati nella neve. i cinghiali menefreghisti....
grazie adriano
''Hai ragione anche tu; a volte la fortuna ci volta le spalle ma a volte
la colpa non è sempre sua ma della nostra incapacità e anche stupidità.''
Parole che condivido in pieno, grazie Maestro.
Un bacio e Buon Natale
Erminia
questo sì che è un bel raccontino
per i coloratissimi personaggi e
il tema eterna scatola a sorpresa
bravo adriano buon natale
inge
L'ho letto tutto d'un fiato, che bella storia, sarebbe bello disegnarla e farne un libretto di Natale che ne dici?
Grazie Adriano
Silvia
Complimenti per questo Blog.
Ne approfitto per far tanti Auguri a te e famiglia.
Ciao. Sono proprio un'impicciona!
Il racconto è proprio di quelli che piacciono a me: non bianco nè nero, ma grigio...come dicevo anche nel mio post.
Sono convinta che le disgrazie possono anche,a volte, nascondere delle grandi fortune e non sempre sono da esecrare: a volte accadono per sventare cose peggiori.
Un bacio Mozzaccia
Bellissimo racconto, pagherei chissà cosa per poter sentire tutte le sere raccontare queste favole, seduta vicino al caminetto.
In termini moderni direbbero che la sfi non sempre è cecata.
Alla prossima
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