venerdì, dicembre 15, 2006
cestini intrecciati
Sono cestini intrecciati con i nastri che mi ha insegnato un'amica.
Li ho preparati per contenere sacchetti di biscotti o cioccolatini.
In questi sacchetti ci sono frollini alla vaniglia e al cioccolato e le gocciole.
Mi sembra bello fare un regalino preparato con le proprie mani.
lunedì, dicembre 04, 2006
RACCONTO DI NATALE
I DUE BARBONI
di Adriano Galasso
Era la sera dell'antivigilia di Natale. Nell'atrio della Stazione Centrale di Milano due vecchi barboni si trascinavano stancamente, molto stancamente, in cerca di un angolino un po' riparato per trascorrere la notte al riparo da un freddo crudo e avvolgente.
Uno era Ciccillo Ruoppolo, detto "Terzo Binario", per il fatto che molto spesso era facile trovarlo proprio là perchè andava a contemplare l'espresso delle 20,45: Milano C.le - Napoli-Mergellina. Vi andava solo per leggere quel Napoli-Mergellina che suscitava in lui ricordi struggenti di malinconica bellezza.
L'altro era un ignoto milanese, detto "el Prevost" perché pare che in gioventù sua madre, donna di facili costumi, lo avesse affidato alle suore che poi lo dirottarono in seminario a Venegono, in cui rimase pare alcuni anni controvoglia finchè alla prima occasione scappò e di lui non si sa molto di più se non che ebbe una vita che per comodità d'uso diremo travagliata.
I due si sistemarono a ridosso della biglietteria, che ormai stava per chiudere, perchè dall'interno usciva un po' d'aria più tiepida.
- Neh Prevost, siccome ca nun me sento troppo bbene, lasseme l'angolo chiu in funno ca fa meno friddo.
- Va ben, mèttes ti. Però se te steet minga ben, perchè te ve no a durmì alla Misericordia?
- No, pecchè s'aggia murì, voglio murì a casa mia, comme a nu signore.
I due tolsero dalle loro grandi bisacce alcuni cartoni che misero sul pavimento e vi ci si sistemarono sopra; poi si tirarono addosso alcune coperte unte e bisunte e scomparvero sotto di esse.
Verso le due di notte quel po' di tepore dei caloriferi della biglietteria, ormai spenti da un bel po', lasciò spazio ad un freddo sempre più aggressivo.
- Prevost...
- Sè ghè?
- Vieni più vicino a me, ca tengo fridde...
- U' frecc anca mi.
Si portò vicino all'amico e con due coperte una sull'altra ebbero un po' meno freddo.
Purtroppo Ciccillo stava sempre peggio, il freddo se lo stava portando via un po' alla volta.
- Secondo te - disse a Prevost - tu che hai studiato religgione, si i' moro vaco in Paraviso?
- In prima classe, vista mare!!!
- 'O mare e Napule?
- Certamente!
- Allora so cuntento assaie!
- Però tu mi devi promettere che quando stai lassù, in nome della nostra amicizia, metti una buona parola per me, per farmi vivere un poeu mej che inscì.
- Sicuramente, 'o primme penziero sarrà pe te. Nun te preoccupà, la tua vita cambierà da così a così, ma tu stamme cchiù vicino ca tengo troppo fridde e i’ ti regalo la mia bisaccia.
Prevost si tenne ancora più stretto all'amico Ciccillo, tentando di riscaldarlo come poteva.
Ma tutto fu invano, egli di lì a poco spirò, un po' per il freddo e un po' per l'età.
Alle quattro del mattino si trovò a passare di lì una pattuglia di Carabinieri in servizio che vedendo Prevost che piangeva disperato si fermò. Un carabiniere si chinò su di lui per chiedergli se avesse bisogno di qualcosa...
- Ciccillo è morto...- disse singhiozzando. -
I carabinieri chiamarono un'ambulanza e il medico potè solo che constatarne il decesso.
- NO, quella bisaccia la prendo io, me l'ha regalata lui prima di morire.
E poi rivoltosi a un carabiniere:
- Secondo lei quanto tempo ci vuole prima che lui arrivi in Paradiso?
- Mah, penso un paio d'ore, il tempo dell'accertamento del decesso e preparare le carte. Dipende da quanto lavoro c'è.
- Grazie, lei non lo sa, ma mi ha promesso che appena arrivato ci avrebbe messo una buona parola che ce ne ho di bisogno, come vede.
Intanto le ore passavano. Alle 10 arrivò una signora con un Albero di Natale pieno di palline multicolori.
- Senti, te lo regalo da parte della mia associazione, così anche per te il Natale sarà più lieto.
Lo posò a terra vicino a lui e premuto un interruttore lo accese.
- Ciao e Buon Natale neh!!!
E così come era venuta se ne andò.
Prevost non disse una parola, ma dentro di sè pensò che se quello era il segnale che in Paradiso qualcuno aveva provveduto a mantenere la parola data in punto di morte, il risultato era certamente inferiore alle attese.
Passò un'altra ora e non successe niente.
A mezzogiorno, fu preso dallo sconforto.
- A quest'ora è arrivato sicuramente in Paradiso e oramai di me si è certamente dimenticato. E' il solito napoletano che mi ha fregato.
- Terùn de la malora - disse fra sè.
Si alzò e tirò un calcio all'alberello di Natale facendo correre tutte le palle per l'androne della biglietteria. Poi si sedette vicino alle due bisacce e dato che la fame si faceva sentire, andò a frugare prima in quella di Ciccillo, sperando di trovarvi del cibo, dato che era ben gonfia e pesante. L'aprì, ma di cibo nemmeno l'ombra. A prima vista apparvero ai suoi occhi solo dei miseri indumenti sporchi da far paura. Vincendo il ribrezzo cominciò a vuotarla, tanto ormai era roba sua.
Ma quale non fu la sua sorpresa, roba da restarci secchi: sotto quel po' di indumenti apparvero pacchi e pacchi di banconote...: trent'anni di elemosine accuratamente custodite in sacchetti del supermercato.
A Prevost cominciarono a tremargli le gambe e poi anche il resto.
Richiuse la bisaccia, si guardò intorno, ma vide solo gente che correva senza curarsi di lui, come le altre volte.
Si vergognò di se stesso per aver pensato male del suo amico napoletano.
Dunque in Cielo aveva parlato con la persona giusta e il risultato era davvero troppo abbondante: non era stato dimenticato.
Corse con le sue bisacce all'obitorio per rivedere per l'ultima volta il suo amico Ciccillo che per lui tanto aveva fatto.
Ma fece di più.
- Questo signore - disse all'impresario delle pompe funebri - verrà sepolto a Napoli e in un posto privilegiato: vista mare.
di Adriano Galasso
Era la sera dell'antivigilia di Natale. Nell'atrio della Stazione Centrale di Milano due vecchi barboni si trascinavano stancamente, molto stancamente, in cerca di un angolino un po' riparato per trascorrere la notte al riparo da un freddo crudo e avvolgente.
Uno era Ciccillo Ruoppolo, detto "Terzo Binario", per il fatto che molto spesso era facile trovarlo proprio là perchè andava a contemplare l'espresso delle 20,45: Milano C.le - Napoli-Mergellina. Vi andava solo per leggere quel Napoli-Mergellina che suscitava in lui ricordi struggenti di malinconica bellezza.
L'altro era un ignoto milanese, detto "el Prevost" perché pare che in gioventù sua madre, donna di facili costumi, lo avesse affidato alle suore che poi lo dirottarono in seminario a Venegono, in cui rimase pare alcuni anni controvoglia finchè alla prima occasione scappò e di lui non si sa molto di più se non che ebbe una vita che per comodità d'uso diremo travagliata.
I due si sistemarono a ridosso della biglietteria, che ormai stava per chiudere, perchè dall'interno usciva un po' d'aria più tiepida.
- Neh Prevost, siccome ca nun me sento troppo bbene, lasseme l'angolo chiu in funno ca fa meno friddo.
- Va ben, mèttes ti. Però se te steet minga ben, perchè te ve no a durmì alla Misericordia?
- No, pecchè s'aggia murì, voglio murì a casa mia, comme a nu signore.
I due tolsero dalle loro grandi bisacce alcuni cartoni che misero sul pavimento e vi ci si sistemarono sopra; poi si tirarono addosso alcune coperte unte e bisunte e scomparvero sotto di esse.
Verso le due di notte quel po' di tepore dei caloriferi della biglietteria, ormai spenti da un bel po', lasciò spazio ad un freddo sempre più aggressivo.
- Prevost...
- Sè ghè?
- Vieni più vicino a me, ca tengo fridde...
- U' frecc anca mi.
Si portò vicino all'amico e con due coperte una sull'altra ebbero un po' meno freddo.
Purtroppo Ciccillo stava sempre peggio, il freddo se lo stava portando via un po' alla volta.
- Secondo te - disse a Prevost - tu che hai studiato religgione, si i' moro vaco in Paraviso?
- In prima classe, vista mare!!!
- 'O mare e Napule?
- Certamente!
- Allora so cuntento assaie!
- Però tu mi devi promettere che quando stai lassù, in nome della nostra amicizia, metti una buona parola per me, per farmi vivere un poeu mej che inscì.
- Sicuramente, 'o primme penziero sarrà pe te. Nun te preoccupà, la tua vita cambierà da così a così, ma tu stamme cchiù vicino ca tengo troppo fridde e i’ ti regalo la mia bisaccia.
Prevost si tenne ancora più stretto all'amico Ciccillo, tentando di riscaldarlo come poteva.
Ma tutto fu invano, egli di lì a poco spirò, un po' per il freddo e un po' per l'età.
Alle quattro del mattino si trovò a passare di lì una pattuglia di Carabinieri in servizio che vedendo Prevost che piangeva disperato si fermò. Un carabiniere si chinò su di lui per chiedergli se avesse bisogno di qualcosa...
- Ciccillo è morto...- disse singhiozzando. -
I carabinieri chiamarono un'ambulanza e il medico potè solo che constatarne il decesso.
- NO, quella bisaccia la prendo io, me l'ha regalata lui prima di morire.
E poi rivoltosi a un carabiniere:
- Secondo lei quanto tempo ci vuole prima che lui arrivi in Paradiso?
- Mah, penso un paio d'ore, il tempo dell'accertamento del decesso e preparare le carte. Dipende da quanto lavoro c'è.
- Grazie, lei non lo sa, ma mi ha promesso che appena arrivato ci avrebbe messo una buona parola che ce ne ho di bisogno, come vede.
Intanto le ore passavano. Alle 10 arrivò una signora con un Albero di Natale pieno di palline multicolori.
- Senti, te lo regalo da parte della mia associazione, così anche per te il Natale sarà più lieto.
Lo posò a terra vicino a lui e premuto un interruttore lo accese.
- Ciao e Buon Natale neh!!!
E così come era venuta se ne andò.
Prevost non disse una parola, ma dentro di sè pensò che se quello era il segnale che in Paradiso qualcuno aveva provveduto a mantenere la parola data in punto di morte, il risultato era certamente inferiore alle attese.
Passò un'altra ora e non successe niente.
A mezzogiorno, fu preso dallo sconforto.
- A quest'ora è arrivato sicuramente in Paradiso e oramai di me si è certamente dimenticato. E' il solito napoletano che mi ha fregato.
- Terùn de la malora - disse fra sè.
Si alzò e tirò un calcio all'alberello di Natale facendo correre tutte le palle per l'androne della biglietteria. Poi si sedette vicino alle due bisacce e dato che la fame si faceva sentire, andò a frugare prima in quella di Ciccillo, sperando di trovarvi del cibo, dato che era ben gonfia e pesante. L'aprì, ma di cibo nemmeno l'ombra. A prima vista apparvero ai suoi occhi solo dei miseri indumenti sporchi da far paura. Vincendo il ribrezzo cominciò a vuotarla, tanto ormai era roba sua.
Ma quale non fu la sua sorpresa, roba da restarci secchi: sotto quel po' di indumenti apparvero pacchi e pacchi di banconote...: trent'anni di elemosine accuratamente custodite in sacchetti del supermercato.
A Prevost cominciarono a tremargli le gambe e poi anche il resto.
Richiuse la bisaccia, si guardò intorno, ma vide solo gente che correva senza curarsi di lui, come le altre volte.
Si vergognò di se stesso per aver pensato male del suo amico napoletano.
Dunque in Cielo aveva parlato con la persona giusta e il risultato era davvero troppo abbondante: non era stato dimenticato.
Corse con le sue bisacce all'obitorio per rivedere per l'ultima volta il suo amico Ciccillo che per lui tanto aveva fatto.
Ma fece di più.
- Questo signore - disse all'impresario delle pompe funebri - verrà sepolto a Napoli e in un posto privilegiato: vista mare.
sabato, novembre 04, 2006
con le nostre mani
lunedì, ottobre 30, 2006
Il Natale quando arriva, arriva
E noi proviamo a farlo con le nostre mani.
Impariamo a fare regali fatti con le nostre mani.
Facciamo regali, pensando a chi daremo quella cosa che abbiamo fatto con le nostre mani..
Quella azzura è una palla di Natale di polistirolo, ricoperta con cera scaldata e tirata con le nostre mani e decorata con perline e passamaneria.
Quella blu e rossa è una palla di Natale di polistirolo, ma fatta con il metodo patchwork. Si intaglia in disegno con un cutter e si infila poi la stoffa nella fessura. Si ricopre poi con passamaneria puntata con spillini piccoli.
I pancakes
domenica, ottobre 15, 2006
Sobrietà
L'enciclica centesimus anno, citando gli effetti del consumismo propone di riaffermare una gerarchia di bisogni: prima i bisogni spirituali e poi bisogni materiali. Solo in questa dimensione ci orienta su "essere" e non su "avere".
L'uomo è visto come un consumatore di beni, in pratica un soggetto che vive per consumare e non viceversa.
Quanti ormai, fanno il passo più lungho della gamba indebitandosi fino a raggiungere soglie di povertà spaventosa?
Ho scoperto che esiste il "marketing del desiderio" e che viene usato dai pubblicitari.
Si cerca un desiderio diffuso, si trova il modo di mettere in rapporto il desiderio e il prodotto da vendere, si costruisce così un ponte, su cui il cliente passa per appagare il suo sogno ritrovandosi poi con un illusione sterile, perchè quel sogno non si avvera, ma in compenso l'uomo spesso si indebita.
Quindi noi non compriamo yogurth, ma compriamo salute e benessere, non compriamo un auto per spostarci, ma compriamo prestigio e importanza, non compriamo un dentifricio per pulire i denti, ma compriamo bellezza e voglia di conquista, non compriamo un amaro, ma compriamo voglia di avventura, non compriamo una crema per evitare che la pelli si secchi, ma compriamo una crema che ci faccia sembrare più giovani...in pratica spendiamo soldi per avverare sogni..che poi non si avverano mai.
L'uomo è visto come un consumatore di beni, in pratica un soggetto che vive per consumare e non viceversa.
Quanti ormai, fanno il passo più lungho della gamba indebitandosi fino a raggiungere soglie di povertà spaventosa?
Ho scoperto che esiste il "marketing del desiderio" e che viene usato dai pubblicitari.
Si cerca un desiderio diffuso, si trova il modo di mettere in rapporto il desiderio e il prodotto da vendere, si costruisce così un ponte, su cui il cliente passa per appagare il suo sogno ritrovandosi poi con un illusione sterile, perchè quel sogno non si avvera, ma in compenso l'uomo spesso si indebita.
Quindi noi non compriamo yogurth, ma compriamo salute e benessere, non compriamo un auto per spostarci, ma compriamo prestigio e importanza, non compriamo un dentifricio per pulire i denti, ma compriamo bellezza e voglia di conquista, non compriamo un amaro, ma compriamo voglia di avventura, non compriamo una crema per evitare che la pelli si secchi, ma compriamo una crema che ci faccia sembrare più giovani...in pratica spendiamo soldi per avverare sogni..che poi non si avverano mai.
martedì, ottobre 10, 2006
musica e poesia
Quando la musica diventa tutt'uno con le parole e le parole ti portano lontanto, così lontanto che non vedi nulla neanche se stringi gli occhi...
Salvatore Di Giacomo
Era de Maggio (1885) Versi di S. Di Giacomo — Musica di P. M. Costa
Era de maggio
e te cadeano ‘nzino a schiocche
a schiocche li ccerase rosse...
Fresca era ll’aria e tutto lu ciardino
addurava de rose a ciente passe.
Era de maggio — io, no, nun me scordo —
na canzona cantàvamo a ddoje voce:
cchiù tiempo passa e cchiù me n’allicordo,
fresca era ll’aria e la canzona doce.
E diceva. «Core, core! core mio, luntano vaje;
tu me lasse e io conto ll’ore, chi sa quanno turnarraje!
» Rispunnev’io: «Turnarraggio quanno tornano li rrose,
si stu sciore torna a maggio pure a maggio io stonco cca,
si stu sciore torna a maggio pure a maggio io stonco cca».
E so’ turnato,
e mo, comm’a na vota,
cantammo nzieme lu mutivo antico;
passa lu tiempo e lu munno s’avota,
ma ammore vero, no, nun vota vico.
De te, bellezza mia, m’annamuraje,
ùsi t’allicuorde, nnanze a la funtana:
l’acqua llà dinto nun se secca maje
e ferita d’ammore nun se sana.
Nun se sana; ca sanata si se fosse, gioia mia,
mmiezo a st’aria mbarzamata
a guardare io nun starria!
E te dico — Core, core! core mio, turnato io so’:
torna maggio e torna ammore, fa de me chello che vuo’
torna maggio e torna ammore, fa de me chello che vuo'
Salvatore Di Giacomo
Era de Maggio (1885) Versi di S. Di Giacomo — Musica di P. M. Costa
Era de maggio
e te cadeano ‘nzino a schiocche
a schiocche li ccerase rosse...
Fresca era ll’aria e tutto lu ciardino
addurava de rose a ciente passe.
Era de maggio — io, no, nun me scordo —
na canzona cantàvamo a ddoje voce:
cchiù tiempo passa e cchiù me n’allicordo,
fresca era ll’aria e la canzona doce.
E diceva. «Core, core! core mio, luntano vaje;
tu me lasse e io conto ll’ore, chi sa quanno turnarraje!
» Rispunnev’io: «Turnarraggio quanno tornano li rrose,
si stu sciore torna a maggio pure a maggio io stonco cca,
si stu sciore torna a maggio pure a maggio io stonco cca».
E so’ turnato,
e mo, comm’a na vota,
cantammo nzieme lu mutivo antico;
passa lu tiempo e lu munno s’avota,
ma ammore vero, no, nun vota vico.
De te, bellezza mia, m’annamuraje,
ùsi t’allicuorde, nnanze a la funtana:
l’acqua llà dinto nun se secca maje
e ferita d’ammore nun se sana.
Nun se sana; ca sanata si se fosse, gioia mia,
mmiezo a st’aria mbarzamata
a guardare io nun starria!
E te dico — Core, core! core mio, turnato io so’:
torna maggio e torna ammore, fa de me chello che vuo’
torna maggio e torna ammore, fa de me chello che vuo'
sabato, ottobre 07, 2006
Lo zio Podger
Credo che molti si ritroveranno in questo brano, che mi fa ridere ogni volta che lo rileggo:
Lo zio Podger appende il quadro "Tre uomini in barca (per non dir del cane)" La sera dunque ci riunimmo di nuovo per elaborare i nostri piani. Harris disse: "Ora, per prima cosa, dobbiamo decidere quel che porteremo con noi. Tu prendi un pezzo di carta e scrivi J., e tu, George, porti qui il listino del droghiere e anche una matita, dopo di che io preparerò l'elenco." Harris è fatto così... sempre pronto ad assumersi il gravame di tutto, e a scaricarlo sulle spalle altrui. Mi ricorda sempre il mio povero zio Podger. Non si è mai visto un trambusto come quello che accadeva in casa di mio zio Podger quando egli si disponeva a eseguire qualche lavoro domestico. Per esempio, c'era un quadro arrivato fresco dal corniciaio, ritto contro una parete della sala da pranzo, in attesa che qualcuno lo appendesse; la zia Podger domandava che cosa si doveva fare con quel quadro, e lo zio Podger rispondeva: "Oh, lascia fare a me. Nessuno se ne preoccupi, nessuno. Ci penso io." Allora si toglieva la giacca e cominciava. Mandava la domestica a comperare sei pence di chiodi, poi la faceva raggiungere da uno dei ragazzi per dirle quanto dovevano essere lunghi; e da quel momento, a poco a poco, mobilitava tutta la famiglia. "Tu vammi a prendere il martello, Will" gridava "e tu portami la riga, Tom; mi occorrerà la scaletta, e sarà meglio portarmi anche una sedia di cucina; ehi, Jim, corri dal signor Goggles e digli: "Il babbo le manda tanti saluti e spera che stia meglio della sua gamba e dice se può prestargli la sua livella". Tu, Maria, non te ne andare perché avrò bisogno di qualcuno che mi regga il lume; e quando la ragazza ritorna, bisognerà che esca di nuovo a prendere un pezzo di cordone da quadri; Tom!... dov'è Tom?... Tom, vieni qui; tu mi porgerai il quadro." Allora, lo zio sollevava il quadro, se lo lasciava sfuggire di mano e il quadro usciva dalla cornice; lui tentava di salvare il vetro e si tagliava un dito; dopo di che, si metteva a saltellare per la stanza, alla ricerca del proprio fazzoletto. Non riusciva a trovare il fazzoletto perché era nella tasca della giacca che si era tolto e lui non sapeva dove l'aveva messa e tutta la famiglia doveva sospendere la ricerca degli utensili per mettersi alla caccia della giacca; intanto, lui continuava a girare come una mosca senza testa, ostacolando le ricerche. "Insomma, non c'è proprio nessuno in tutta la casa che sappia dov'è la mia giacca? Non ho mai visto gente simile, in vita mia, parola d'onore. Siete in sei e non riuscite a trovare la giacca che mi sono tolto appena cinque minuti fa! Roba da matti..." In quel momento, si alzava dalla seggiola su cui, frattanto, si era lasciato cadere, e scopriva di essere stato seduto proprio sulla giacca. "Ormai, potete smettere di cercarla!" gridava allora. "L'ho trovata da solo. Se aspettavo che me la trovaste voialtri, tanto valeva che mi rivolgessi al gatto!" Quando poi si era sprecata una mezz'ora per medicargli il dito, si era provveduto un vetro nuovo, e gli utensili, la scaletta, la seggiola e la candela erano stati portati in sala, lo zio Podger faceva un altro tentativo, mentre tutta la famiglia, compresa la cameriera e la donna di fatica, gli formava attorno un semicerchio, pronta ad aiutare. Due persone dovevano tener ferma la sedia, un'altra doveva aiutarlo a salirci sopra e dargli una mano per stare in equilibrio, una quarta gli porgeva il chiodo, una quinta il martello, e lui prendeva il chiodo e lo lasciava cadere. "Ecco!" diceva in tono esulcerato "adesso, se n'è andato il chiodo." Noi dovevamo inginocchiarci tutti per esplorare il pavimento e cercare il chiodo, mentre lo zio brontolava e domandava se lo avremmo costretto a stare lassù tutta la sera. Finalmente, si trovava il chiodo, ma intanto lui aveva perso il martello. "Dov'è il martello? Dove ho cacciato il martello? Accidenti! Ve ne state lì in sette, a bocca aperta, e non sapete dove ho cacciato il martello!" Si trovava il martello, ma lui, intanto aveva perso di vista il segno che aveva fatto sulla parete per piantarci il chiodo; a uno a uno, salivamo tutti accanto a lui, sulla sedia, per vedere se ci riusciva di trovarlo; ognuno lo scopriva in un posto diverso, e lo zio ci dava degli imbecilli e ci ordinava di scendere. Prendeva la riga, misurava daccapo, constatava che il chiodo doveva distare dall'angolo la metà di settantacinque centimetri e sette millimetri, tentava di fare il calcolo a memoria e andava fuori dai gangheri. Ognuno di noi tentava, allora, di fare lo stesso calcolo a memoria, ma tutti arrivavamo ad un risultato diverso e ci deridevamo a vicenda. Nel trambusto generale, ci si dimenticava il numero originario e lo zio Podger doveva riprendere la misura. Questa volta, si serviva di un pezzo di spago, ma, al momento critico, quando, da quel vecchio tonto che era, si stava sporgendo dalla sedia a un angolo di quarantacinque gradi e tentava di raggiungere con la mano un punto che era almeno una spanna più in là del massimo cui poteva arrivare, lo spago gli sfuggiva dalle dita, e lui piombava sul pianoforte e produceva un efficace effetto musicale, colpendo i tasti simultaneamente con la testa e col corpo. La zia Maria diceva che non poteva permettere ai bambini di rimanere ad ascoltare il linguaggio dello zio Podger. Finalmente, lo zio riusciva a fissare di nuovo il punto dove andava piantato il chiodo, vi appoggiava la punta del chiodo con la sinistra e prendeva il martello con la destra, ma al primo colpo si schiacciava il pollice, dopo di che, con un grido di dolore,lasciava cadere il martello sui piedi di qualcuno. La zia Maria osservava blandamente che se un'altra volta lo zio Podger si fosse sognato di piantare un chiodo nel muro, lei si augurava che la preavvisasse, dandole il tempo di prendere le sue misure per andare a passare una settimana con sua madre, intanto che si compiva l'impresa. "Oh, voialtre donne fate sempre un gran cancan per ogni nonnulla!" ribatteva lo zio Podger, riprendendosi. "A me piace tanto fare qualche lavoretto in casa." Poi, compiva un altro tentativo e, al secondo colpo, il chiodo penetrava tutto intero nell'intonaco e la testa del martello gli andava dietro per metà, cosicché lo zio Podger veniva proiettato contro il muro con una forza sufficiente ad appiattirgli il naso. Naturalmente, dovevamo rimetterci alla ricerca della riga e dello spago, e lui faceva un altro buco; verso la mezzanotte, il quadro era attaccato... storto e malsicuro, mentre la parete per qualche metro all'intorno aveva l'aria di essere stata grattata con un rastrello; e tutti eravamo stanchi morti, depressi... tutti, a eccezione dello zio Podger. "Ecco fatto!" esclamava, saltando pesantemente dalla sedia sui calli della donna di fatica e, osservando la devastazione compiuta, con palese orgoglio. "Diamine, tanti altri avrebbero chiamato un operaio per fare un lavoretto di questo genere!"
Jerome K. Jerome, Tre uomini in barca (per non dir del cane)(1889); Bur, 1987.
Lo zio Podger appende il quadro "Tre uomini in barca (per non dir del cane)" La sera dunque ci riunimmo di nuovo per elaborare i nostri piani. Harris disse: "Ora, per prima cosa, dobbiamo decidere quel che porteremo con noi. Tu prendi un pezzo di carta e scrivi J., e tu, George, porti qui il listino del droghiere e anche una matita, dopo di che io preparerò l'elenco." Harris è fatto così... sempre pronto ad assumersi il gravame di tutto, e a scaricarlo sulle spalle altrui. Mi ricorda sempre il mio povero zio Podger. Non si è mai visto un trambusto come quello che accadeva in casa di mio zio Podger quando egli si disponeva a eseguire qualche lavoro domestico. Per esempio, c'era un quadro arrivato fresco dal corniciaio, ritto contro una parete della sala da pranzo, in attesa che qualcuno lo appendesse; la zia Podger domandava che cosa si doveva fare con quel quadro, e lo zio Podger rispondeva: "Oh, lascia fare a me. Nessuno se ne preoccupi, nessuno. Ci penso io." Allora si toglieva la giacca e cominciava. Mandava la domestica a comperare sei pence di chiodi, poi la faceva raggiungere da uno dei ragazzi per dirle quanto dovevano essere lunghi; e da quel momento, a poco a poco, mobilitava tutta la famiglia. "Tu vammi a prendere il martello, Will" gridava "e tu portami la riga, Tom; mi occorrerà la scaletta, e sarà meglio portarmi anche una sedia di cucina; ehi, Jim, corri dal signor Goggles e digli: "Il babbo le manda tanti saluti e spera che stia meglio della sua gamba e dice se può prestargli la sua livella". Tu, Maria, non te ne andare perché avrò bisogno di qualcuno che mi regga il lume; e quando la ragazza ritorna, bisognerà che esca di nuovo a prendere un pezzo di cordone da quadri; Tom!... dov'è Tom?... Tom, vieni qui; tu mi porgerai il quadro." Allora, lo zio sollevava il quadro, se lo lasciava sfuggire di mano e il quadro usciva dalla cornice; lui tentava di salvare il vetro e si tagliava un dito; dopo di che, si metteva a saltellare per la stanza, alla ricerca del proprio fazzoletto. Non riusciva a trovare il fazzoletto perché era nella tasca della giacca che si era tolto e lui non sapeva dove l'aveva messa e tutta la famiglia doveva sospendere la ricerca degli utensili per mettersi alla caccia della giacca; intanto, lui continuava a girare come una mosca senza testa, ostacolando le ricerche. "Insomma, non c'è proprio nessuno in tutta la casa che sappia dov'è la mia giacca? Non ho mai visto gente simile, in vita mia, parola d'onore. Siete in sei e non riuscite a trovare la giacca che mi sono tolto appena cinque minuti fa! Roba da matti..." In quel momento, si alzava dalla seggiola su cui, frattanto, si era lasciato cadere, e scopriva di essere stato seduto proprio sulla giacca. "Ormai, potete smettere di cercarla!" gridava allora. "L'ho trovata da solo. Se aspettavo che me la trovaste voialtri, tanto valeva che mi rivolgessi al gatto!" Quando poi si era sprecata una mezz'ora per medicargli il dito, si era provveduto un vetro nuovo, e gli utensili, la scaletta, la seggiola e la candela erano stati portati in sala, lo zio Podger faceva un altro tentativo, mentre tutta la famiglia, compresa la cameriera e la donna di fatica, gli formava attorno un semicerchio, pronta ad aiutare. Due persone dovevano tener ferma la sedia, un'altra doveva aiutarlo a salirci sopra e dargli una mano per stare in equilibrio, una quarta gli porgeva il chiodo, una quinta il martello, e lui prendeva il chiodo e lo lasciava cadere. "Ecco!" diceva in tono esulcerato "adesso, se n'è andato il chiodo." Noi dovevamo inginocchiarci tutti per esplorare il pavimento e cercare il chiodo, mentre lo zio brontolava e domandava se lo avremmo costretto a stare lassù tutta la sera. Finalmente, si trovava il chiodo, ma intanto lui aveva perso il martello. "Dov'è il martello? Dove ho cacciato il martello? Accidenti! Ve ne state lì in sette, a bocca aperta, e non sapete dove ho cacciato il martello!" Si trovava il martello, ma lui, intanto aveva perso di vista il segno che aveva fatto sulla parete per piantarci il chiodo; a uno a uno, salivamo tutti accanto a lui, sulla sedia, per vedere se ci riusciva di trovarlo; ognuno lo scopriva in un posto diverso, e lo zio ci dava degli imbecilli e ci ordinava di scendere. Prendeva la riga, misurava daccapo, constatava che il chiodo doveva distare dall'angolo la metà di settantacinque centimetri e sette millimetri, tentava di fare il calcolo a memoria e andava fuori dai gangheri. Ognuno di noi tentava, allora, di fare lo stesso calcolo a memoria, ma tutti arrivavamo ad un risultato diverso e ci deridevamo a vicenda. Nel trambusto generale, ci si dimenticava il numero originario e lo zio Podger doveva riprendere la misura. Questa volta, si serviva di un pezzo di spago, ma, al momento critico, quando, da quel vecchio tonto che era, si stava sporgendo dalla sedia a un angolo di quarantacinque gradi e tentava di raggiungere con la mano un punto che era almeno una spanna più in là del massimo cui poteva arrivare, lo spago gli sfuggiva dalle dita, e lui piombava sul pianoforte e produceva un efficace effetto musicale, colpendo i tasti simultaneamente con la testa e col corpo. La zia Maria diceva che non poteva permettere ai bambini di rimanere ad ascoltare il linguaggio dello zio Podger. Finalmente, lo zio riusciva a fissare di nuovo il punto dove andava piantato il chiodo, vi appoggiava la punta del chiodo con la sinistra e prendeva il martello con la destra, ma al primo colpo si schiacciava il pollice, dopo di che, con un grido di dolore,lasciava cadere il martello sui piedi di qualcuno. La zia Maria osservava blandamente che se un'altra volta lo zio Podger si fosse sognato di piantare un chiodo nel muro, lei si augurava che la preavvisasse, dandole il tempo di prendere le sue misure per andare a passare una settimana con sua madre, intanto che si compiva l'impresa. "Oh, voialtre donne fate sempre un gran cancan per ogni nonnulla!" ribatteva lo zio Podger, riprendendosi. "A me piace tanto fare qualche lavoretto in casa." Poi, compiva un altro tentativo e, al secondo colpo, il chiodo penetrava tutto intero nell'intonaco e la testa del martello gli andava dietro per metà, cosicché lo zio Podger veniva proiettato contro il muro con una forza sufficiente ad appiattirgli il naso. Naturalmente, dovevamo rimetterci alla ricerca della riga e dello spago, e lui faceva un altro buco; verso la mezzanotte, il quadro era attaccato... storto e malsicuro, mentre la parete per qualche metro all'intorno aveva l'aria di essere stata grattata con un rastrello; e tutti eravamo stanchi morti, depressi... tutti, a eccezione dello zio Podger. "Ecco fatto!" esclamava, saltando pesantemente dalla sedia sui calli della donna di fatica e, osservando la devastazione compiuta, con palese orgoglio. "Diamine, tanti altri avrebbero chiamato un operaio per fare un lavoretto di questo genere!"
Jerome K. Jerome, Tre uomini in barca (per non dir del cane)(1889); Bur, 1987.
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